I
padri cappuccini di Palermo esistono da cinque secoli (giunsero
nel 1533), ed oltre alle opere pie per cui l’ordine ere stato costituito,
provvedeva anche alla cura dei defunti, con un proprio cimitero
ed appositi apparati per le funzioni funebri.
Come
in tutti i conventi, nell’ambito del monastero esistevano due cimiteri
distinti, uno per i frati ed un altro per i civili che gradivano
quella destinazione per i propri cari..
Nel convento, però,
dei padri cappuccini di Palermo sorse presto (1599) un altro, stranissimo
cimitero impropriamente detto “le catacombe”, in quanto sotterraneo
e con lunghe gallerie scavate nel tufo. La scelta
di destinare questi ambienti a sepoltura derivò dalla scoperta che
alcuni salme di frati riesumate risultavano perfettamente e naturalmente
imbalsamate.
Il fatto ovviamente impressionò sia i frati che la cittadinanza,
la quale iniziò immediatamente a preferire le catacombe agli altri
cimiteri cittadini e la ragione è comprensibile: il corpo intatto,
al momento della resurrezione, sarebbe stato “più presentabile”
per il Paradiso e l’eterna beatitudine,
I cunicoli delle grotte, quindi, dovettero aumentare, poi, quando non
fu più possibile estenderli, si cominciarono a porre le salme ovunque,
riempiendo pavimenti, angoli, pareti, ed ogni spazi libero raggiungibile
e ciò fino al 1881, quando le sepolture cessarono (non sappiamo
se per legge, per cambio di cultura o se per vera e propria impossibilità
di ricevere altri ospiti).
In definita,
ora, le catacombe dei Cappuccini di Palero, si sviluppano nel sottosuolo
per oltre 300 m.q e con circa 8000 cadaveri insepolti e mummificati.
Si tratta di un “monumento” alla morte imponente e di elevato valore storico,
ma nello stesso tempo oltremodo impressionante e la sua visita non
è molto adatta a chi non è di stomaco buono. I morti sono tutti
pressoché visibili, conservati non certo nelle loro sembianze originali,
ma parzialmente ancora intatti, vestiti con i loro abiti originali
che ne determinano il censo e l’attività.
Ne rimasero
toccati anche Ippolito Pindemonte, che visitò le catacombe nel giorno
dei morti nel 1779 e le decantò in una sua poesia e il celebre scrittore
francese Guj de Maupassant che, avendole visitate nell’anno 1885,
si soffermò lungamente a studiare il metodo dell’essiccamento.
Attualmente l’ingresso è sul lato sinistro della facciata della chiesa,
da dove si scende subito nei cunicoli non senza avvertire immediatamente
la senzazione di una diffusa umidità e, soprattutto un odore di
muffa incombente. D’altra parte i cadaveri non mancano nella loro
eterna immobilità.
Ai piedi della
scala si scorgono subito i primi scheletri messi in fila, ritti,
addossati alle pareti, con le mani incrociate e con un'espressione
degna di un ambiente di Dario Argento. A destra si trova la prima
parte del corridoio dei frati, il più antico, socchiuso da un cancello
di legno, e racchiude le salme dei primi 40 frati; stranamente,
fra essi, giace anche un certo Aila, figlio dell’antico re di Tunisi.
Imboccando
il corridoio degli uomini, all’altezza con quello dei sacerdoti,
all’interno di un piccolo vano, sono sistemati i bambini. Proseguendo,
i corpi mummificati, quasi identici l’uno all’altro, s'identificano
con dei cartelli che riportano il nome, cognome e data della morte;
sono vestiti con gli abiti dell’epoca dimostrando con ciò la diversa
estrazione sociale. Quasi adirato per il trattamento subito, il
viso intatto ma annerito, Antonio Prestigiacomo, morto nel 1844
e mummificato con il metodo dell’arsenico, sembra scrutare i visitatori.
Il corridoio delle donne è il meno
spettrale in quanto i corpi sono deposti in tavolieri orizzontali
e si possono ammirare gli stili delle vesti usate tra il ‘700 e
‘800: abbondano abiti di seta con ricchi merletti cuffie dalle forme
più svariate.
In una cappella,
detta del "Crocifisso", si trovano i corpi di quattro
fanciulle con vesti chiare, coronate da fiori metallici e con rami
di palma tra le mani per indicare che si tratta di donne non sposate,
vergini, come si legge su uno scritto a chiare lettere che cita
un versetto delle sacre scritture. Incrociando il corridoio dei
professionisti, così chiamato per la numerosa presenza di medici,
avvocati, pittori, ufficiali e soldati, tra i quali il pittore Velasquez,
gli scultori Filippo Pennino e Lorenzo Marabitti e il chirurgo Salvatore
Manzella, ci si immette in un lungo corridoio senza nicchie alle
pareti, la parte più recente, che fino a qualche anno fa era pieno
di casse chiuse al pubblico; le leggi civili avevano proibito, nel
1837, l’esposizione dei cadaveri fino allora praticata.
Al centro
di questo corridoio si può vedere uno dei tanti colatoi disseminati
lungo le gallerie: una piccola celletta scavata nel tufo accoglie
dei lettini di pietra con la giacitura costituita da tubi di terracotta
isolati da una porta d’ardesia.
Nella
cappella di Santa Rosalia, tra due bare di cadaveri di bambine,
si trova la famosa bara della piccola Rosalia Lombardo, morta il
6 Dicembre 1920 a soli due anni, trasportata ai Cappuccini per essere
sepolta dopo essere stata imbalsamata per opera del dottor Solafia,
con un metodo farmacologico di cui si sconosce la composizione.
A causa della immatura scomparsa del medico, l'operazione non poté
essere portata a termine.
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