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IL TEMA




Uno scheletro gigante in piazza duomo


Chi si fosse trovato, ad aprile, a passeggiare per il centro di Milano non avrà potuto fare a meno di notare una scultura gigantesca esposta, transennata, nel belmezzo di piazza Duomo. Si trattava di un enorme scheletro lungo circa 24 metri, sdraiato sulla schiena e con un singolare nasone appuntito. L’opera, intitolata “Calamita cosmica”, nasce dall’estro di Gino De Dominicis, un artista marchigiano scomparso nel 1998. Nato ad Ancona nel 1947, De Dominicis è stato pittore, scultore, filosofo ed architetto e, grazie alle molteplici forme di espressione derivanti da una formazione poliedrica, può essere considerato uno degli artisti di maggior rilievo degli anni a cavallo fra il 1960 e il 1970. Chi ha avuto occasione di conoscerlo lo ricorda come uomo di grande eleganza, riservato, dotato di un invidiabile senso dell’umorismo e contraddistinto da una forte indipendenza dalle mode e dalle correnti artistiche della seconda metà del 1900. Queste sue caratteristiche lo portarono più volte ad esprimere la propria arte in modo anche provocatorio, modus operandi al quale deve buona parte della sua fama. Tra le opere più discusse si rammenta l’esposizione alla galleria romana “la Nuova Pesa” di un finto impiccato con un pennello al posto del sesso maschile in erezione.



L’opera esposta in piazza Duomo ha ottenuto positivi riscontri grazie soprattutto a quelle motivazioni psicologiche che colpiscono il nostro immaginario se riferite ad un qualcosa di gigantesco, affascinante od orribile che sia. Questa enorme scultura, inquietante ed ermetica, venne interamente esposta per la prima volta nel 1990 al museo d’Arte Contemporanea “Magazin” di Grenoble, mentre una parte di essa, il cranio, fu proposta alla XLIV Biennale di Venezia e, nel 1996, nel cortile della reggia di Capodimonte a Napoli. Nel 2005 ha trovato spazio ad Ancona, nella Mole Vanvitelliana, prima di approdare, come un fantasma, nel centro di Milano.

Nel catalogo dell’esposizione di Ancona, con le parole del curatore Italo Tomassoni, trovano evidenza attendibili interpretazioni sulla scultura: “Senza scampo la commozione suscitata da questo che è uno dei testi più impressionanti ed ermetici del XX secolo, frutto di un genio insuperabile che testimonia la percezione dell’assoluto e che chiude il secondo millennio con un sigillo rovente. L’arte del XX secolo ne conserverà il ricordo con la piena coscienza di non reggerne la portata. in Calamita Cosmica, il riferimento mesopotamico sprofonda dentro una antropologia dove l’ordine anatomico dello spazio corporale evoca il tempo del sovrumano. Cupa e impassibile, la perfezione formale dell’opera è attraversata dalle onde magnetiche di cui è strumento e protagonista. Al centro del campo indotto dall’asta puntata sulla falange distale della mano destra (obelisco, arnese apotropaico o gnomone, segno di raccordo tra microcosmo e macrocosmo, di sintonia interplanetaria e di collegamento tra gli stati dell’essere), il colosso celebra l’eroismo titanico di chi si è avventurato in spazi inaccessibili al dominio dell’esplorazione tecnologica”.

l titolo della scultura allude in effetti al rapporto che si intrattiene tra la “colossale creatura”, che riproduce una specie antropomorfa sconosciuta ai terrestri, e lo spazio cosmico. Questo rapporto si manifesta attraverso l’asta d’oro (calamita) che, come un gigantesco gnomone in bilico sul dito medio della mano destra dello scheletro, scandisce un tempo originario e ultramondano. Il singolare ed appuntito “nasone” trova riscontro anche in molte opere pittoriche che l’artista realizzò nel corso degli anni ‘80, dominate da volti ermetici tutti dal naso allungato, quasi a ripetere all’infinito un proprio personale gesto di beffa rivolto ai numerosi “Pinocchi” che, purtroppo, circolano nel variegato mondo artistico.

Certo è che l’opera esposta a Milano ha sortito uno degli effetti auspicati, di norma, dagli artisti, quello di stupire l’osservatore. De Dominicis, in realtà, affermava di non ambire a ciò, ritenendo di primaria importanza dover stupire se stesso e non gli altri: “Un pittore è come un prestigiatore che con i suoi giochi deve riuscire a sorprendere se stesso. e in questo sta la complessità. Anziché usare, per mostre collettive o a tema, opere di artisti, spesso addirittura non viventi, per illustrare e per confortare la propria tematica, i critici dovrebbero cercare di convincere un editore a pubblicare un libro sulla propria problematica. Il mito della storia porta a credere che qualsiasi fatto o espressione artistica, per il solo motivo che sia stato prodotto, sia interessante e memorabile, e da collezionare. Rari sono gli artisti non condizionati dalle religioni cui consapevolmente o inconsapevolmente appartengono. il loro modo di esprimersi nell’arte lo rivela. Circa duemila anni fa si è deciso che la donna è un essere inferiore rispetto all’uomo e che l’artista visivo è una figura superflua, da ridimensionare. Sono alcune delle innumerevoli fortunate sciocchezze che ci sono state tramandate. Così come il disegno e la pittura, la mia scultura non è condizionata dalla forza di gravità”.

L’opera, definita anche “Scheletrone” o “Ventiquattro Metri di Forme d’Oro” (Gino De Dominicis aveva infatti ipotizzato di rivestirla interamente d’oro zecchino), sarà conservata definitivamente in un Museo destinato ad essa in esclusiva e che verrà inaugurato il prossimo anno. Chi fosse interessato può approfondire la conoscenza dell’artista marchigiano attraverso il volume “De Dominicis”, realizzato a cura di Gabriele Guercio ed edito da Umberto Allemandi Editori.